Lo scoppio della Prima Guerra
mondiale interruppe un processo di trasformazione iniziato alla fine del XIX secolo: il
fenomeno della migrazione verso ovest.
Circa 30 milioni di persone di
spostarono da un paese all’altro dell’Europa, la maggior parte di questi
emigranti apparteneva a fasce comprese tra i 15 e i 34 anni di età, va da se
che lo scopo era di farsi seguire dalle famiglie non appena insediati nel nuovo
paese e con un lavoro in grado di soddisfare le esigenze familiari. Con la
mobilitazione militare si intensificarono anche gli spostamenti all’interno di
ciascun stato: uomini e donne abbandonavano i luoghi di origine per trasferirsi
a lavorare in luoghi remoti o città.
All’inizio degli scontri
militari, la famiglia era già mutata se non di diritto almeno di fatto: in
parte ciò era dipeso da una minore dimensione sotto il punto di vista del
numero dei figli sia per cause naturali
(mortalità infantile che se pure in diminuzione restava uno dei dati più
significativi) sia per le politiche di industrializzazione cui tendevano gli
stati.
Nonostante i rapporti familiare risentissero
delle trasformazioni dovute alla guerra, rimaneva ancora inalterato il primato
maschile e quello dei genitori e “vecchi”, in generale alla forte struttura di
comando del capofamiglia. La donna doveva rimanere sottomessa e poiché nella
maggior parte dei casi la fonte dell’autorità, ossia il marito, era lontana
questa passava troppo spesso ai “suoceri” o ai cognati.
La Grande guerra da tanti
definita come il vero spartiacque tra mondo moderno e contemporaneo rappresentò
anche per le donne un grande cambiamento innescando, in Italia,
un’accelerazione del processo di emancipazione iniziato alla fine del XIX secolo.
Un cambiamento che segnò una frattura dell’ordine familiare e sociale. Esse
infatti si trovano a dover sostituire gli uomini che si trovano al fronte nelle
decisioni familiari, nel lavoro in fabbrica e nelle campagne, nelle attività
commerciali e formative, nei ruoli istituzionali, nell’educazione dei figli,
nel provvedere al “pane quotidiano”. Ovviamente questi compiti si affiancavano
ai tradizionali compiti di cura e gestione della casa e della famiglia. Se da
un lato questo significò liberarsi dallo stereotipo di “angelo del focolare”
dall’altro le caricò di maggiore fatica e responsabilità.
Di fatto le donne dovettero
accettare questo genere di responsabilità tradizionalmente maschili, spesso
senza poter scegliere né godere appieno dei potenziali e presunti benefici che
tali posizioni comportavano. Non fu una strada facile ne sicura: la presenza
femminile era vissuta come un sovvertimento all’ordine naturale delle cose: era
comunque scomparsa la divisione del lavoro che voleva affidati agli uomini i
compiti più pesanti e impegnativi.
L’economia delle famiglie nel
primo decennio del XX secolo era basata soprattutto sull’agricoltura, anche se
si stava facendo strada l’era industrializzata che si svilupperà maggiormente
nel dopoguerra. Le famiglie, comunità produttive erano anche unità di consumo e
tutto si aggirava intorno alla fattoria; tutti i membri della famiglia dovevano
partecipare alle attività economiche specifiche a seconda dell’età e del sesso.
L’enorme consumo di energie umane
innescato dalla guerra, il bisogno crescente di manodopera in tutti i settori
(specialmente nella produzione bellica), provocarono una invasione di campo
femminile nelle più diverse realtà professionali. Purtroppo a fronte di questo
meccanismo non aumentava di pari grado il guadagno e il conseguente potere
d’acquisto: anche se le donne che lavoravano in fabbrica, guadagnavano di più
di altre rimaste a casa o a curare i campi, non riuscivano ugualmente a sfamare i figli e
gli anziani con il loro stipendio. Ed ecco allora che nell’economia familiare
entra un nuovo vocabolo l’arte del riciclo sia per i generi alimentari
che per tutto quanto necessario all’economia familiare.